Marco Scotini - Mi
interessa mostrare la relazione quasi antitetica tra quella che noi pensiamo
politica e quella che vediamo come arte; abituati a pensare queste due
dimensioni come dimensioni separate a partire dalla ripartizione Kantiana
tra l'etico e l'estetico, sebbene per tutto il novecento abbiamo continuato
a pensare nel migliore dei casi alla maniera di Benjamin, in cui o si
poteva parlare di una politicizzazione dell'arte o di una estetizzazione
della politica, in qualche modo due poli ciascuno dei quali definito
che potevano sovrapporsi, ma mai darsi come una integrazione possibile.
Quello che mi interessa è invece, e che è uno
degli ambiti operativi della Moltitudine è questa condizione in
cui non si assume l'ambito del politico come oggetto della rappresentazione,
ma si parla di Arte che è intrinsecamente politica; stranamente
nel momento della post politica in cui una idea del politico di tipo
tradizionale è veramente terminato. Nel senso che credo che a
partire dalla mia generazione, dagli anni sessanta, abbiamo perso ogni
pathos nei confronti di quello che poteva essere anche un retaggio novecentesco
di alcune dimensioni della politica come forma di rappresentanza, e questo
mi pare uno dei nodi più importanti dell' arte pubblica e contemporanea
- questo rapporto tra rappresentanza e rappresentazione.
Devo dire che se guardiamo all'interno della cultura
delle avanguardie storiche del novecento, non è così facile
rintracciare una genealogia moderna dei - Molti- dentro la modernità stessa.
L'idea di J. Boys per esempio quando parla (Documenta 82) della Catastasi di
basalto e della Piantagione delle settemila querce, di arborizzazione dello spazio,
di amministrazione dello spazio urbano, sicuramente c'è già
questa idea di un rapporto tra rappresentanza e rappresentazione.
Devo dire entrambi in crisi, forse definitivamente, nel senso che tantissimi
di questi casi rappresentano forme moltitudinarie dell'arte contemporanea, in
qualche modo soffrono di una crisi di rappresentazione, nel senso che preferiscono
un' azione diversa, non mediata, piuttosto che una azione rappresentata.
E nello stesso tempo credo che lo scenario dei
-Molti- sia uno scenario pluralista, cioè uno scenario più solenne
del contemporaneo dove è l'Arte, dove è l'estetico nel
contemporaneo - questo spazio che si sottrae costitutivamente nel senso
che è comunque ancora la modernità che aveva delegato al
museo ed alla galleria, diciamo ancora l'idea di rappresentare lo spazio
dell’ estetico, devo dire, nonostante tutti i tentativi delle avanguardie
storiche di avvicinare arte e vita invece di ricorrere a quello Benjaminiano
del rapporto (arte e politica) che vi dicevo precedentemente.
Adesso credo che la nostra idea di rappresentare l'arte, l'idea di esposizione
rispetto invece ad un intervento diretto, diciamo di un laboratorio che si chiama
Società - da parte dell'Arte - devo dire è uno strumento così pervasivo,
quasi mimetizzato nei tessuti connettivi!
Come del resto penso che delle buone mostre sono quelle che mettono in scena
ciò che già esiste, che magari ignoriamo perchè pensiamo
che l'arte sia altrove.
Io credo che veramente sia difficile… quello che noi anche creiamo come
display - sia l'impossibilità di una rappresentazione unica, così come è impossibile
convergere verso questo -Uno- e credo che la dimostrazione più importante
l'abbiamo avuta nel 97 a Kassel quando Catherine David ha realizzato una proliferazione
di spazi come spazi della rappresentazione artistica a partire da un book, che
non era assolutamente un catalogo - era un libro autonomo dallo spazio, dallo
spazio del web, lo spazio della città, tutta una serie di spazi e tempi
che ciascuno richiamano la propria autonomia, ma nessuno riusciva in qualche
modo a ricondurre a rappresentazione totalizzante il contemporaneo.
Questa è stata una dimostrazione di cosa significava operare dopo l' 89
tra due realtà oppositive. Allora perchè la disobbedienza
è diventa una condizione sine-qua-non del politico, e perchè anche
dell'estetico?
Quando parlo di disobbedienza civile non parlo
tanto di una idea di protesta, quanto nella accezione anche questa classica
del termine - quanto quella di defezione ed uscita. Essere disobbediente
oggi vuol dire in qualche modo produrre affermazioni possibili, lavorare
in maniera affermativa.
L'idea non è quella della protesta, ma è quella della “Uscita” -
nel senso del parametro del sistema economico.
In questo caso tutte le pratiche dopo l' 89 sono tese ad una sorta di attivismo
generalizzato, a produrre una alternativa possibile (penso a Geo Design nel contemporaneo,
da esempio).
Se questo da un lato è la
condizione dell'Attivismo, cosa c'entra l'estetico?
Io credo che - i Molti - siano per costituzione,
(così come dicevo –Politici- in tempi di post-politica)
intrinsecamente estetici, nel senso che così come concordato
alla fine della "Cura di sé" - in qualche modo l'essere
contemporaneo una volta sganciato da tutte le forme di determinismo
che lo collegavano ad ambiti di appartenenza -è chiamato ad
autodefinirsi e a negoziare la propria individualità, se di
questa si può parlare, perchè io credo che ne abbiamo
molte simultaneamente.
Non è vero che non ne abbiamo da una parte… né nessuna,
né da una parte ne abbiamo una alla quale dobbiamo tenere, ma in qualche
modo questa idea di autocostruzione - praticamente l'ultimo retaggio Kantiano
rispetto alla ripartizione che si diceva, questa sorta di libertà nell'arte,
tutte le altre componenti per essere tali dovevano rapportarsi a delle forme
normative.
Ed ecco che per la prima volta l'arte o l'ambito dell'arte è quello che
dichiara invece che si tratta o che abbiamo comunque a che fare con regole facoltative
che ci diamo ogni volta.
Perciò perchè Arte Pubblica? Arte!
- perchè per fare Arte ogni volta devo determinare lo spazio
di intervento, e devo determinare i miei parametri che definiscono
in qualche modo la costituzione del mio intervento.
Allora quando dicono che la moltitudine è estetica, è proprio perché si
da una condizione di regole facoltative per potersi determinare.
Quindi le azioni di fuoriuscita e di esodo di costruzione della alternativa sono
moltissime.
Una delle condizioni del contemporaneo che ci accomuna è la
possibilità, la grande latenza che abbiamo di fronte - la latenza
di possibilità. Un altro degli elementi fondamentali che avevamo
evitato e di cui giustamente ci siamo sbarazzati è l'idea di utopia.
Io non credo più che si possa affermare che non abbiamo da perdere che
le nostre catene, perchè invece abbiamo da perdere moltissimo, ma soprattutto
abbiamo tutto da guadagnare a partire dalla realtà che abbiamo di fronte.
Questa è la mia idea di arte pubblica contemporanea.
Marco Scotini è critico d’arte e curatore
indipendente. Collabora alle riviste Flash Art, Artelier, Work. Art in
progress, Espacio, Moscow Art Magazine, Millepiani.
Dal 1996 al 2003 ha fatto parte del comitato scientifico della Fondazione
Ragghianti di Lucca. E’ tra i fondatori di Isola Art Center a Milano
per cui ha curato le mostre “Art-chitecture
of change” (2005),
“Who uses the space” (2005), “The
People’s
Choice” (2006).
Tra le ultime mostre curate -
“NetworkingCity”, Firenze 2003; “Going Public. Soggetti, politiche
e luoghi”, Modena 2003; “Empowerment. Cantiere Italia”, Genova
2004; “Producendo
Realidad”, Lucca 2004; “Revolutions Reloaded. Laboratorio Romania”,
Milano-Berlino 2004; “Disobedience.
An ongoing video library”, Berlino-Praga-Mexico D.F. 2005.
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