ARTE
 
* Home       * Mappe * Multivers
 
 
   

. Sopralluoghi .
Crisi dell’Autore? Vita dei collettiv
i - Andrea Lissoni, Kinkaleri
Indagine nel Contemporaneo: 3

 

 

ANDREA LISSONI - questo serviva per inserire la terza questione, quella del pubblico. Per dire che la problematicità del lavoro di Kinkaleri in quanto autore collettivo è molto interessante perché si pone la questione del rapporto fra autore collettivo e opera e del processo che va dall’autore collettivo all’opera, ma pure si pone la questione del pubblico che è il terzo elemento che va a rimodificare lo statuto dell’autore collettivo. E lo fa in modo autoriale, “creativo”, andando a implicarlo, a sollecitarlo e vedere come reagisce portando poi queste conclusioni all’interno di un ulteriore processo di lavoro.
Ecco perché mi sembra una scelta molto pertinente nonostante Kinkaleri agisca nel campo delle performing arts.
Come era finita? Cosa avete portato dentro nell’opera finale di quello studio?

MASSIMO CONTI - A parte che non sono molto sicuro che il pubblico faccia un’operazione del genere, nel senso che si trova davanti ad un oggetto e probabilmente non si fa nessuna domanda, probabilmente…

ANDREA LISSONI - Cioè pensate di avere di fronte dei …

MASSIMO CONTI - No, no, non si fa nessuna domanda rispetto alla modalità di lavoro.

ANDREA LISSONI - Evidentemente il pubblico interpreta, per cui, per esempio, io di fronte ad <OTTO> possa vedere il disastro della solitudine, e rimaneggia l’opera…

MASSIMO CONTI - Sì, ma lo fa sempre no?

ANDREA LISSONI - Sì questo lo fa sempre, il creare delle altre e delle nuove opere tradizionalmente nel novecento ha portato un altro statuto del pubblico più in primo piano. Non vuol dire che il pubblico è artista, per carità, assolutamente, solo interviene con uno statuto più problematico soprattutto in opere fuori formato, come le vostre o su cui state lavorando, come quella per cui l’oggetto è il fatto che una persona ics può andare a far saltare un edificio che è un abuso edilizio.


MARCO MAZZONI - Da questo punto di vista, è più sul rapporto dei formati e delle messe in scena che fai. Sicuramente ci siamo sempre posti pochissimo il problema di individuare un linguaggio univoco da applicare continuamente perché la natura del gruppo, i sei autori molto determinati nella propria visione delle cose hanno sempre messo in circolo il pensiero andando ogni volta a specificare i linguaggi che andavi a utilizzare.
Lo spettacolo stesso accetta delle regole e allo stesso tempo delle estetiche estremamente diverse l’una dall’altra, infatti credo che con il tempo, il pubblico che ti segue sia già più allenato a tentare di entrare nella tua schizofrenia come qualcuno che propone dei mondi a cui tu non puoi solo dire ok, so cosa mi aspetta…e quindi cerca di tradurli - sicuramente il lavoro che mettevamo in atto era una riflessione che spostava completamente tutta la questione… non più performance semplicemente da guardare però allo stesso tempo era la estremizzazione di quello che vorresti sempre - di trovarsi di fronte ad una esperienza diretta, (l’oggetto stesso rispetto a dei parametri d’arte assomigliava di più ad una performance d’arte) portavi direttamente dentro il pubblico a fare qualche cosa che normalmente fa, realmente senza considerarlo niente di più di quello che era, bere mangiare, in quel caso tu gli spostavi le caratteristiche, per cui quell’oggetto stesso diventava la messa in scena.

ANDREA LISSONI - Che tipo di esperienza ne avete cavato? Come ha portato questo studio all’opera finale dei I Cenci/Spettacolo?


MARCO CONTI - I Cenci/Spettacolo è l’ultimo spettacolo di una trilogia che rifletteva sulla rappresentazione, l’uso e la scelta dei Cenci e di Artaud non era casuale, volevamo cercare di lavorare sbarazzandoci di tutte le interpretazioni fatte dalla critica, dal pubblico sul pensiero di Artaud. E questo metteva direttamente in relazione “chi è” quella persona che improvvisamente decide di mostrarsi davanti a te.

Ci sono stati tre studi prima dello spettacolo e questi hanno avuto uno spostamento progressivo del pubblico, mentre nella prima parte era indistinta questa posizione, e cioè c’era questo rapporto diretto col fare, con l’essere evento, nella seconda parte c’era una situazione ibrida in cui un performer cinese lavorava nello stesso spazio del pubblico e effettuava una serie di cose per poi arrivare a cantare un besame mucho con un cercapersone, come se fosse in un piano bar e lui passava fra le persone in piedi o accasciate a terra, nel terzo il pubblico era al suo posto. Per arrivare allo spettacolo che era tutto il nostro quesito su qual è il ruolo dell’essere in scena, perché dovrei essere in scena. Questa è stata la domanda, senza una risposta, non è che ti fai queste domande per risponderti o legittimarti, sicuramente era uno sbarazzarci di tutta una serie di cliché rispetto ad Artaud, al teatro della crudeltà, al corpo per concentrarci su questa dimensione soggettiva dell’opera d’arte poi fondamentalmente.

E cioè la proposizione di un mondo, un immaginario, di dinamiche della scena, di un’opera che non intende tradurre niente altro che se stessa e soprattutto quella di porsi davanti ad uno spettatore non come oggetto da interpretare ma con un mondo da penetrare, su cui sedersi, un posto dove qualcuno ti si mostra per quello che è, per quello che può fare, come sono poi sempre tutti gli spettacoli. Cerchi di imbastire un paesaggio, qualcosa che si possa condividere, non comunicare, condividere ognuno come vuole o può. Non c’è mai un tentativo di giocare direttamente sul pubblico, forse quella è stata proprio la prima occasione, ma c’era un motivo preciso, era proprio un lavoro su questo però non coinvolgi il pubblico perché lo prendi a schiaffi ma lo fai entrare dentro un mondo, dentro delle regole del gioco nel momento in cui queste regole riescono ad essere manifeste, ad essere evidenti, nel momento in cui i tuoi segni mostrano un’evidenza di cose. ognuno ne fa poi quello che vuole, è chiaro che tu fai un percorso, disponi una serie di segni, hai una mappa da proporre, poi ognun,o nel momento in cui accetta il gioco, fa quello che vuole. Puoi anche non accettarlo ma allora qui lo spettacolo non esiste.


MATTEO BAMBI - Il pubblico non è a priori l’oggetto di studio per forza di cose. È sempre funzionale all’oggetto che viene portato avanti. In quel caso lì era funzionale all’oggetto come lo sarà per esempio nella situazione di cui accennavi poco fa, a Reggio Emilia. In quell’occasione lì ci sarà l’abbattimento di un ecomostro in campagna -e la proposta che ci era stata fatta di intervenire con un’azione performativa che accompagnasse l’abbattimento è stata recepita ed elaborata nella costruzione di un evento che avesse come base il coinvolgimento del pubblico inteso come popolazione, cittadinanza, e quindi la proposta è stata di organizzare un gioco che democraticamente elegga il vincitore che premerà il bottone che abbatterà l’ecomostro, in questo caso è stato scelto di organizzare una tombola…. L’idea di partenza era di stimolare nel partecipante una doppia valenza: uno spirito partecipativo con contenuto eroico (uccidere il mostro, paladino liberatore) e la sottile voglia di poter sparare un botto così grosso. In quel caso era imprescindibile il tentativo di coinvolgere il pubblico.


VALENTINA GENSINI - Può essere che quello che voi avete appreso dal vostro operare in gruppo, dal fare maieutico che uno ha verso l’altro, la provocazione, il confronto, e l’operare in un ambito di relatività e non di assoluta fertilità, poi diventa un modo operativo da proporre anche al pubblico, la vostra azione è nuovamente maieutica nei confronti del pubblico. Laddove avete imparato fra di voi questo modo operativo.


MARCO MAZZONI - Non so se vorrei intenderlo come gioco, indubbiamente è un rapporto che permette di trovare cose legate a dei desideri del momento, il rapporto con il pubblico è sempre qualcosa che non nasce mai a priori se non legandosi ai progetti. Hai dei progetti che prevedono il diretto coinvolgimento del pubblico e ne fanno parte. Mai dimenticando che stai facendo uno spettacolo e che l’evento esiste in quanto c’è qualcuno che lo guarda. Poi ci sono progetti che hanno un maggior coinvolgimento con l’esterno. Il lavoro che mettiamo in atto è più complesso, personalmente non penso di rilanciare nel momento in cui tento di coinvolgere qualcun altro. Alla fine quando lo lancio sugli altri ho sempre già fatto un altro processo, già individuato, già trovato.

Per esempio tutto il rapporto di conflitto nel nostro lavoro è molto più legato alla gestazione, al momento in cui devi cominciare a fare le scelte. Nel momento in cui le fai, trovi accordo con gli altri, a quel punto ho già una sorta di sicurezza e posso rilanciare fuori. Non lo so se si tratta di qualcosa che ho individuato e poi rilancio -è più un fatto di progetto. Ad esempio abbiamo fatto un evento che era legato ad un urlo che veniva fatto all’interno dello stadio di San Siro, un lavoro che aldilà della performance di per sé già innescava la presentazione che un urlo che poteva avere tutta una serie di valenze - il rapporto e la risposta del pubblico già ne amplificavano il contenuto perché quel dialogo che si innescava fra chi dentro emetteva l’urlo e il fuori apriva a tutte le domande che poneva quella singola azione.


LUCA CAMILLETTI - (rivolto a Valentina sulla sua considerazione) Se fosse vero quello che tu dici vorrebbe dire che Kinkaleri si preoccupa di definire delle diverse forme di democrazia. Dal mio punto di vista tutto questo non mi appartiene né come persona, né tantomeno come artista, nel senso che sono molto più interessato ad una ridefinizione della dittatura. Sono provocatorio lo so, però non mi interessa ridefinire una democrazia all’interno per poi applicare i suoi risultati sull’esterno, perché la dialettica che si produce è quella all’interno di un conflitto - però la pacificazione dei sensi o la giusta misura in cui ciascuna cosa può essere al posto giusto credo che tutti i nostri lavori finora abbiano tenuto conto di quanto sia impossibile credere alla democrazia e disinteressarsi completamente al fatto che sia attuabile questo nell’arte come nel conflitto di un’idea, come nell’accettazione di qualcosa.
Personalmente sono uno spettatore pessimo quando assisto agli spettacoli di altri e non mi interessa di essere democratico o tollerante, non metto la mia conoscenza, il mio sapere, o quello che ho studiato, o visto, al servizio di un mio giudizio, o di una mia opinione nei confronti di quello che vedo, sono assolutamente insopportabile ed emotivo -e quindi non ho ragione di far valere quello che posso aver messo in atto nei processi di creazione, ecco lì sta proprio un conflitto tutto personale che a me appartiene in un modo e agli altri componenti appartiene in un altro, nel momento in cui tutto questo poi deve trovare un oggetto che si concretizza in qualche modo, uno spettacolo, una performance o altro.


SPETTATORE - È curioso come Luca introduca l’elemento dello spettatore visto che finora abbiamo parlato di pubblico che ha un livello di campionamento molto più grezzo, diciamo, come se il pubblico fosse un’entità definita e singola ed esistente mentre lo spettatore, che si introduce adesso, è il contraltare del singolo in un gruppo di creazione. Ti fa pensare, che cosa è il pubblico? Come ci si relaziona con questa entità, con questo formicaio però variegato.

ANDREA LISSONI - Il punto che tu tocchi lo tocchiamo sul processo dell’autore perché è quello di cui ci stiamo occupando oggi. Diciamo due cose, la prima rispetto al lavoro di Kinkaleri: abbiamo capito che procedono in un modo estremamente interessante che ha che fare quasi con le dinamiche della ricerca, non si muove lungo un binario di poetica ma si muove per tentativi, per esperimenti come se fosse ricerca pura, libera, in un ambito definito indisciplinato ma che è un ambito dai risultati assolutamente disciplinati, volutamente chiari, anche se sformati, cioè non con delle forme che possiamo immediatamente definire.

Invece rispetto alla macro-questione dell’incontro di oggi, se c’è stato un passaggio tra l’opposizione in cui la figura dell’autore è stata messa in crisi trentanni fa e oggi sta… in cui c’era una A maiuscola da una parte e una massa dall’altra parte anche grazie a quell’interessante momento degli anni novanta in cui singoli aggregati hanno generato modi diversi di lavorare all’interno di collettivi, il passaggio è stato tra Autore con A maiuscola e individuo. Individuo vuol dire che individuo può lavorare in team, può lavorare su delle dinamiche autoriali, questo abbassamento di statuto mi pare, come ha detto Luca, che si possa provare ad immaginarlo per quello che riguarda il pubblico. Un po’ quello che dicevi tu (rivolto alla domanda dello spettatore), il non percepire più l’idea di massa, di popolo, di popolazione di una città ma l’idea di singoli individui.

SPETTATORE - Un concetto un po’ ottocentesco

ANDREA LISSONI - Esatto, un insieme di individui che possono con la loro individualità… E a questo punto è interessante parlare di biografia, con la storia personale, certo all’interno di un collettivo, all’interno di un agire di comunità, però questo è un salto di statuto da problematizzare, su cui interrogarci, e da capire se può essere interessante o no pensarlo sia rispetto all’autore sia rispetto al pubblico. È un punto, è un punto su cui possiamo domandarci se sviluppare o meno e in che senso.
Quello che possiamo fare adesso è ringraziarvi.


Andrea Lissoni (Milano, 1970) è storico dell’arte, critico e curatore. Laureato in Storia dell’Arte Moderna presso
l’Università di Pavia. E’ fondatore e co-direttore dal 2000 del Festival Internazionale Netmage e del network curatoriale Xing.
Nel 2000 ha curato la mostra Media Magica - nel 2002 la rassegna Parallel Exit (Fondazione Sandretto).
Nel 2005 è stato curatore della mostra Circular per la rivista Domus . E’ corrispondente per l’Italia della rivista
di critica Parachute, collaboratore di Close-up-Storie della visione, di Domus e del magazine d’arte Mousse.


Kinkaleri nasce nel 1995 come raggruppamento di formati e mezzi in bilico nel tentativo. Muovendo quindi da una qualità del fare che privilegia l’innovazione, l’interazione tra linguaggi originali attraverso la sperimentazione di diverse modalità di esposizione; spettacoli, performance, installazioni, produzioni video, sonorizzazioni, allestimenti, pubblicazioni.
Tra le produzioni recenti : My love for you will never die (2001), <OTTO> (2002/2003) , TONO (2003), WEST (2003),
I Cenci/Spettacolo (2004), pool (2005), NERONE (2006).

 
XLibro /  
Art/Versus Next | 1 | 2 | 3 | 4 | 5 | 0 |