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. Sopralluoghi .
Crisi dell’Autore? Vita dei collettiv
i - Andrea Lissoni, Kinkaleri
Indagine nel Contemporaneo: 2

 

 

LUCA CAMILLETTI - Le questioni che tu proponi ci riguardano e però in realtà ci contraddicono, perché i pensieri che ciascuno di noi probabilmente relaziona a queste questioni, pur accomunando, ci fanno avere degli sguardi che non sono omogenei -e questo accade anche rispetto ai nostri stessi lavori. Non si cerca, come nel processo di traduzione, di arrivare alla forma compiuta perfetta ma si preferisce rimanere nell’imperfezione della costruzione, del trattamento da fare rispetto al materiale, rispetto a un progetto, ad un’idea di partenza e quindi anche le domande che possono essere poste rispetto a un nostro stesso oggetto, a un nostro spettacolo, probabilmente singolarmente da ciascuno di noi un interlocutore riceverebbe delle risposte diverse, ma non soltanto per la questione di come il linguaggio di ciascuno di noi possa relazionarsi con l’interlocutore per spiegare, per trovare una relazione dialettica, ma perché quel punto a cui siamo arrivati con lo spettacolo ha dei punti che accomuna gli elementi e altri che però non vengono accomunati.

Però nel momento in cui un’idea viene messa a disposizione all’interno del gruppo siamo disposti e disponibili a riconoscerla così come personalmente colui che l’ha proposta la mette a disposizione all’interno proprio perché sa che il procedimento di lavoro, così come nella traduzione, e con l’apporto degli altri, seguirà un iter per il quale il prodotto finale la conterrà ma non è necessariamente plausibile che sia possibile riconoscerne la sua derivazione soggettiva così come era all’inizio, quindi in questo senso lavorare in gruppo vuol dire avere generosità di quello che ciascuno riesce a mettere all’interno, farlo circolare e fargli subire tutti i trattamenti continui di ridefinizione da parte degli altri.

E quindi la questione era che non facciamo parte di un filone, non ci siamo messi insieme perché ci volevamo bene, non abbiamo fatto certe scelte per convinzioni politiche o per seguire un filone o una moda, c’è stato una coincidenza che ci ha permesso di lavorare insieme per un oggetto, intorno ad un oggetto e realizzarlo, e da lì è continuato tutto il resto con la ridEfinizione continua del raggruppamento, con delle caratteristiche diverse da quei movimenti, quei raggruppamenti, da quei contesti di cui Andrea ci ha parlato.



VALENTINA GENSINI - Credo che questo sia importante perché la finalità è il progetto, progettare insieme, volevo però chiedervi: laddove c’è dolore, cioè l’artista generalmente crea qualcosa che stenta ad appartenergli, l’autore con la A maiuscola, ma dove si lavora in gruppo c’è un offrire generosamente un progetto, un’idea, metterlo al centro e lasciare che anche gli altri operino sopra e poi l’opera diventa altro da sé e quindi c’è un distacco prematuro perché prima ancora che l’opera sia compiuta già si distacca dall’idea progettuale iniziale, c’è un’alterità già nella produzione dell’opera. Allora vorrei sapere laddove questo vi mette in crisi e può provocare dolore, perché capisco che poi alla fine, nella sintesi finale ci possa essere anche un’esaltazione collettiva, una soddisfazione collettiva. Immagino, guardandovi da fuori, che forse il momento più difficile, umanamente e creativamente, sia proprio la produzione, cioè il momento in cui si progetta, in cui il progetto viene manipolato finché non raggiunge una forma di sintesi finale che si reputa perfettibile ancora, ma, come diceva Luca, accettabile, proponibile.



MARCO MAZZONI - In effetti tutto il rapporto di gestazione è il momento più conflittuale di tutto il lavoro perché parti da presupposti per cui in qualche maniera non puoi mai avere delle sicurezze, per cui parti sempre con una proposta e questo fa sì che la tua idea estremamente convincente nel momento in cui la proponi possa poi subire tutte le variazioni possibili. Sicuramente a monte c’è una scelta che è quella legata ad un idea - che lavori su qualcosa in divenire che può sottrarsi e non deve affermare se non nel suo risultato finale. Quindi da parte di ognuno di noi c’è questa volontà di sottrarsi singolarmente per definirsi collettivamente e questo innesca tutto quel meccanismo di fragilità sulle scelte anche che fai, sugli oggetti che proponi - per fragilità intendo che non puoi più credere nell’unicità assoluta di un segno perché ti contiene ma in qualche maniera si è spostato da te, tutte le proposte sono delle domande innanzitutto e quindi non ti poni mai come un’affermazione unica che l’autore quasi sempre va a fare perché magari si domanda un po’ meno… anche tu poi scopri che il settimo ha trovato un’identità che riconosci, ma è sempre fatta di questo togliersi un po’ di mezzo singolarmente e ti permette poi di poterti riconoscere.



MASSIMO CONTI - Io credo poi che ci sia anche un discorso da fare sull’ideale .Quello che fa soffrire forse è l’ideale di ognuno, nel momento in cui l’esercizio è proprio nella pratica e cioè biograficamente vivere un situazione del genere; non puoi pensare a come sarebbe bello fare o come mi piacerebbe fare, ma tutto questo è sempre in discussione fin dall’inizio, quindi c’è un azzeramento rispetto a un’idea, non c’è l’idea assoluta, non c’è l’idea migliore, esiste l’idea da mettere dentro un ring, l’esercizio che singolarmente procura poi sicuramente sofferenza. Però da un altro punto di vista è un continuo allenamento e soprattutto una continua possibilità altra, sempre, c’è sempre un’altra possibilità qualunque sia stata la precedente, anche fallita. Perché uno se ne procura sempre un’altra successiva e tutto questo nel momento in cui le dinamiche sono così coscienti da parte di ognuno di noi, ognuno è coinvolto e propone la propria vita, non sta pensando ad altro, si propone sempre esattamente se stessi in quel momento, quei se stessi che cambia nel tempo e quindi ha un altro tipo di conflitto con gli altri.

Noi dopo un certo momento abbiamo per esempio avuto la necessità di non essere più in scena, è un cambiamento forte in termini di pratica, in termini di relazione con l’altro, di relazione con qualcuno che deve tradurre delle idee che addirittura sono in prova, in conflitto, e un conto è essere in conflitto fra di noi e un conto essere in conflitto fra di noi con gli altri. Questo sposta radicalmente una pratica a cui non ci siamo sottratti alla fine perché ci offre delle possibilità, ci da delle vie di fuga rispetto a un circuito che magari si può innescare, però nel momento in cui la vita di ognuno resta attiva, resta con delle necessità da sviluppare, da volere allora tutto questo è in continuo movimento, conflitto ecc… però genera fatica e finché la fatica è sopportabile tu continui, è un esercizio continuo nel togliere di mezzo l’ideale di ognuno, poi è chiaro che riaffiora da qualche altra parte.
È un esercizio credo molto concreto alla fine.



ANDREA LISSONI
- Tornando alla mappatura che ho provato a fare prima, uno dei punti chiave è questo: le realtà che si sono riunite a vario titolo e con varie modalità soprattutto negli anni novanta si opponevano ad una forte presenza dell’autore quasi sciamanico, potentissimo, autoritario, in grado di usare dei mezzi pesanti letteralmente, di lavorare su dei campi con delle grosse economie in ballo, ma d’altra parte se si osservano in filigrana le modalità si scopre che molto spesso sono dei dispositivi per potenziare e distinguere l’autorialità, non si tratta di team che potenziano la voce collettiva ma potenziano l’individualità generalmente.

Hanno messo in crisi abbastanza bene la dialettica fra autore e collettivo, mi pare che stasera abbiamo parlato di due cose fondamentalmente: del processo di creazione, dell’opera, del rapporto fra autore e opera. C’è una terza cosa che storicamente ha fatto saltare la questione dell’autore, ed è il pubblico.
Cioè da una parte abbiamo qualcuno che crea, da solo o collettivo, più o meno tormentati, questo processo di creazione genera, a seconda della modalità, un oggetto, tuttavia ci insegnano gli studi soprattutto letterari che quello che ha messo in crisi l’autorialità storicamente non è solo questo ma è il pubblico che in qualche modo smontando a proprio piacimento l’opera si propone come un elemento che rimette in questione il rapporto fra autore e se stesso.

La specificità, il punto critico interessante ancora una volta di Kinkaleri mai troppo ribadito è questo, che lavorando sulla strana equivalenza, sullo stesso piano, che può esistere tra pubblico e se stessi ed opera, lavorando su frammenti o a volte su opere fuori formato molto spesso ha portato il pubblico ad interrogarsi non solo sui suoi limiti ma anche sul suo potenziale coinvolgimento. Ricordiamo non lontano da qui, a Prato, un lavoro in cui protagonista era sostanzialmente il pubblico, come potrebbe essere ad un cocktail, magari ce lo descrivete e ci dite che cosa pensate del ruolo del pubblico, che tipo di funzione ha in questo senso, quanto può mettere in crisi, quanto gioca.



MARCO MAZZONI
- Quel lavoro era il primo studio di una produzione che si è poi chiamata
“I Cenci/Spettacolo”, era praticamente un’azione che si svolgeva all’interno di Palazzo Vaj a Prato, dove a un pubblico selezionato di circa 50 spettatori venivano date delle cuffie acustiche da indossare, dopo di che da queste cuffie si poteva ascoltare una conversazione a sei, una disquisizione, leggendo dei brani dell’epoca dei Cenci di Artaud con delle relazioni d’epoca di critici - noi ne parlavamo in maniera molto semplice, andando quasi a banalizzare, facendoci battute ma allo stesso tempo anche entrando direttamente in una sorta di analisi come se fossimo intorno ad un tavolo.
Questo era uno stratagemma perché intanto il pubblico entrava dentro, in una condizione di ascolto e si distraeva da tutto quello che c’era intorno fino a che non veniva aperta una porta e venivano invitati all’interno di questa stanza a consumare una sorta di inaugurazione, c’erano dei camerieri che aprivano dello spumante, incominciavano a servire da bere, portavano dei pasticcini e quindi questo pubblico mentre ascoltava queste voci registrate si trovava a vivere un’esperienza che era quella di una inaugurazione.



ANDREA LISSONI
- Una domanda, giustamente nella descrizione tu hai detto: era uno studio, bene, essendo uno studio ed avendo come protagonista il pubblico e voi non visibili, quanto il fatto che il pubblico fosse l’oggetto del lavoro è tornato nell’opera finale?



MARCO MAZZONI - Intanto era uno studio che doveva servire a noi a capire quale sarebbe stata la direzione dell’opera finale e quindi questo era un punto abbastanza fondamentale. Avevamo finito un lavoro come <OTTO> e sentivamo di aver già messo dei punti rispetto a quella che poteva essere la nostra riflessione sulla rappresentazione; in qualche modo però ci eravamo dati questa finalità di produrre un altro lavoro che avrebbe dovuto lasciare il segno di questa nostra ricerca - allora nel momento in cui ci siamo interrogati rispetto a quel lavoro siamo partiti da delle riflessioni che ci togliessero totalmente di scena e lasciassero così la scena completamente in balia al pubblico, però è anche vero che non volevamo semplicemente dire: eccovi! Ma volevamo trovare una maniera per portarli ad essere in scena loro malgrado.

Quindi in realtà abbiamo messo in moto questo stratagemma che ci permetteva di portare direttamente il pubblico che veniva a vedere uno spettacolo dentro di esso. Tutta la cosa diventava chiara nel momento che al pubblico che stava consumando al buffet veniva tolto in cuffia, lentamente, l’audio con le nostre voci e sostituito con l’audio registrato sul momento in diretta di loro stessi che consumavano il buffet offerto da noi. Loro si trovavano ad ascoltare loro stessi dentro quella scena. Tutto questo si trasformava in messa in scena, li portava all’interno di questo spettacolo. la cosa finiva in maniera semplice. Una volta finito di mangiare e bere veniva reinserito in cuffia l’audio del nostro parlato, veniva aperta la porta e loro si ritrovavano fuori di nuovo.

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 continua

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