LUCA CAMILLETTI - Le questioni che tu proponi ci riguardano e però in
realtà ci
contraddicono, perché i pensieri che ciascuno di noi probabilmente
relaziona a queste questioni, pur accomunando, ci fanno avere degli
sguardi che non sono omogenei -e questo accade anche rispetto ai nostri
stessi lavori. Non si cerca, come nel processo di traduzione, di arrivare
alla forma compiuta perfetta ma si preferisce rimanere nell’imperfezione
della costruzione, del trattamento da fare rispetto al materiale, rispetto
a un progetto, ad un’idea di partenza e quindi anche le domande
che possono essere poste rispetto a un nostro stesso oggetto, a un
nostro spettacolo, probabilmente singolarmente da ciascuno di noi un
interlocutore riceverebbe delle risposte diverse, ma non soltanto per
la questione di come il linguaggio di ciascuno di noi possa relazionarsi
con l’interlocutore per spiegare, per trovare una relazione dialettica,
ma perché quel punto a cui siamo arrivati con lo spettacolo
ha dei punti che accomuna gli elementi e altri che però non
vengono accomunati.
Però nel momento in cui un’idea viene messa a disposizione
all’interno del gruppo siamo disposti e disponibili a riconoscerla
così come personalmente colui che l’ha proposta la mette
a disposizione all’interno proprio perché sa che il procedimento
di lavoro, così come nella traduzione, e con l’apporto
degli altri, seguirà un iter per il quale il prodotto finale
la conterrà ma non è necessariamente plausibile che sia
possibile riconoscerne la sua derivazione soggettiva così come
era all’inizio, quindi in questo senso lavorare in gruppo vuol
dire avere generosità di quello che ciascuno riesce a mettere
all’interno, farlo circolare e fargli subire tutti i trattamenti
continui di ridefinizione da parte degli altri.
E quindi la questione
era che non facciamo parte di un filone, non ci siamo messi insieme
perché ci volevamo bene, non abbiamo
fatto certe scelte per convinzioni politiche o per seguire un filone
o una moda, c’è stato una coincidenza che ci ha permesso
di lavorare insieme per un oggetto, intorno ad un oggetto e realizzarlo,
e da lì è continuato tutto il resto con la ridEfinizione
continua del raggruppamento, con delle caratteristiche diverse da quei
movimenti, quei raggruppamenti, da quei contesti di cui Andrea ci ha
parlato.
VALENTINA GENSINI - Credo che questo sia importante perché la
finalità è il
progetto, progettare insieme, volevo però chiedervi: laddove
c’è dolore, cioè l’artista generalmente crea
qualcosa che stenta ad appartenergli, l’autore con la A maiuscola,
ma dove si lavora in gruppo c’è un offrire generosamente
un progetto, un’idea, metterlo al centro e lasciare che anche
gli altri operino sopra e poi l’opera diventa altro da sé e
quindi c’è un distacco prematuro perché prima ancora
che l’opera sia compiuta già si distacca dall’idea
progettuale iniziale, c’è un’alterità già nella
produzione dell’opera. Allora vorrei sapere laddove questo vi
mette in crisi e può provocare dolore, perché capisco
che poi alla fine, nella sintesi finale ci possa essere anche un’esaltazione
collettiva, una soddisfazione collettiva. Immagino, guardandovi da
fuori, che forse il momento più difficile, umanamente e creativamente,
sia proprio la produzione, cioè il momento in cui si progetta,
in cui il progetto viene manipolato finché non raggiunge una
forma di sintesi finale che si reputa perfettibile ancora, ma, come
diceva Luca, accettabile, proponibile.
MARCO MAZZONI - In effetti tutto il rapporto di gestazione è il
momento più conflittuale di tutto il lavoro perché parti
da presupposti per cui in qualche maniera non puoi mai avere delle
sicurezze, per cui parti sempre con una proposta e questo fa sì che
la tua idea estremamente convincente nel momento in cui la proponi
possa poi subire tutte le variazioni possibili. Sicuramente a monte
c’è una scelta che è quella legata ad un idea -
che lavori su qualcosa in divenire che può sottrarsi e non deve
affermare se non nel suo risultato finale. Quindi da parte di ognuno
di noi c’è questa volontà di sottrarsi singolarmente
per definirsi collettivamente e questo innesca tutto quel meccanismo
di fragilità sulle scelte anche che fai, sugli oggetti che proponi
- per fragilità intendo che non puoi più credere nell’unicità assoluta
di un segno perché ti contiene ma in qualche maniera si è spostato
da te, tutte le proposte sono delle domande innanzitutto e quindi non
ti poni mai come un’affermazione unica che l’autore quasi
sempre va a fare perché magari si domanda un po’ meno… anche
tu poi scopri che il settimo ha trovato un’identità che
riconosci, ma è sempre fatta di questo togliersi un po’ di
mezzo singolarmente e ti permette poi di poterti riconoscere.
MASSIMO
CONTI - Io credo poi che ci sia anche un discorso da fare sull’ideale
.Quello
che fa soffrire forse è l’ideale di ognuno, nel momento
in cui l’esercizio è proprio nella pratica e cioè biograficamente
vivere un situazione del genere; non puoi pensare a come sarebbe bello
fare o come mi piacerebbe fare, ma tutto questo è sempre in discussione
fin dall’inizio, quindi c’è un azzeramento rispetto
a un’idea, non c’è l’idea assoluta, non c’è l’idea
migliore, esiste l’idea da mettere dentro un ring, l’esercizio
che singolarmente procura poi sicuramente sofferenza. Però da
un altro punto di vista è un continuo allenamento e soprattutto
una continua possibilità altra, sempre, c’è sempre
un’altra possibilità qualunque sia stata la precedente,
anche fallita. Perché uno se ne procura sempre un’altra
successiva e tutto questo nel momento in cui le dinamiche sono così coscienti
da parte di ognuno di noi, ognuno è coinvolto e propone la propria
vita, non sta pensando ad altro, si propone sempre esattamente se stessi
in quel momento, quei se stessi che cambia nel tempo e quindi ha un altro
tipo di conflitto con gli altri.
Noi dopo un certo momento abbiamo per
esempio avuto la necessità di
non essere più in scena, è un cambiamento forte in termini
di pratica, in termini di relazione con l’altro, di relazione
con qualcuno che deve tradurre delle idee che addirittura sono in prova,
in conflitto, e un conto è essere in conflitto fra di noi e
un conto essere in conflitto fra di noi con gli altri. Questo sposta
radicalmente una pratica a cui non ci siamo sottratti alla fine perché ci
offre delle possibilità, ci da delle vie di fuga rispetto a
un circuito che magari si può innescare, però nel momento
in cui la vita di ognuno resta attiva, resta con delle necessità da
sviluppare, da volere allora tutto questo è in continuo movimento,
conflitto ecc… però genera fatica e finché la
fatica è sopportabile tu continui, è un esercizio continuo
nel togliere di mezzo l’ideale di ognuno, poi è chiaro
che riaffiora da qualche altra parte.
È un esercizio credo molto concreto alla fine.
ANDREA LISSONI - Tornando alla mappatura che ho provato a fare prima,
uno dei punti chiave è questo: le realtà che si sono riunite
a vario titolo e con varie modalità soprattutto negli anni novanta
si opponevano ad una forte presenza dell’autore quasi sciamanico,
potentissimo, autoritario, in grado di usare dei mezzi pesanti letteralmente,
di lavorare su dei campi con delle grosse economie in ballo, ma d’altra
parte se si osservano in filigrana le modalità si scopre che molto
spesso sono dei dispositivi per potenziare e distinguere l’autorialità,
non si tratta di team che potenziano la voce collettiva ma potenziano
l’individualità generalmente.
Hanno messo in crisi abbastanza
bene la dialettica fra autore e collettivo, mi pare che stasera abbiamo
parlato di due cose fondamentalmente: del processo di creazione, dell’opera, del rapporto fra autore e
opera. C’è una terza cosa che storicamente ha fatto saltare
la questione dell’autore, ed è il pubblico.
Cioè da una parte abbiamo qualcuno che crea, da solo o collettivo,
più o meno tormentati, questo processo di creazione genera,
a seconda della modalità, un oggetto, tuttavia ci insegnano
gli studi soprattutto letterari che quello che ha messo in crisi l’autorialità storicamente
non è solo questo ma è il pubblico che in qualche modo
smontando a proprio piacimento l’opera si propone come un elemento
che rimette in questione il rapporto fra autore e se stesso.
La specificità, il punto critico interessante ancora una volta
di Kinkaleri mai troppo ribadito è questo, che lavorando sulla
strana equivalenza, sullo stesso piano, che può esistere tra
pubblico e se stessi ed opera, lavorando su frammenti o a volte su
opere fuori formato molto spesso ha portato il pubblico ad interrogarsi
non solo sui suoi limiti ma anche sul suo potenziale coinvolgimento.
Ricordiamo non lontano da qui, a Prato, un lavoro in cui protagonista
era sostanzialmente il pubblico, come potrebbe essere ad un cocktail,
magari ce lo descrivete e ci dite che cosa pensate del ruolo del pubblico,
che tipo di funzione ha in questo senso, quanto può mettere
in crisi, quanto gioca.
MARCO MAZZONI - Quel lavoro era il primo studio di una produzione
che si è poi chiamata
“I Cenci/Spettacolo”, era praticamente un’azione che
si svolgeva all’interno di Palazzo Vaj a Prato, dove a un pubblico
selezionato di circa 50 spettatori venivano date delle cuffie acustiche
da indossare, dopo di che da queste cuffie si poteva ascoltare una conversazione
a sei, una disquisizione, leggendo dei brani dell’epoca dei Cenci
di Artaud con delle relazioni d’epoca di critici - noi ne parlavamo
in maniera molto semplice, andando quasi a banalizzare, facendoci battute
ma allo stesso tempo anche entrando direttamente in una sorta di analisi
come se fossimo intorno ad un tavolo.
Questo era uno stratagemma perché intanto il pubblico entrava
dentro, in una condizione di ascolto e si distraeva da tutto quello che
c’era intorno fino a che non veniva aperta una porta e venivano
invitati all’interno di questa stanza a consumare una sorta di
inaugurazione, c’erano dei camerieri che aprivano dello spumante,
incominciavano a servire da bere, portavano dei pasticcini e quindi questo
pubblico mentre ascoltava queste voci registrate si trovava a vivere
un’esperienza che era quella di una inaugurazione.
ANDREA LISSONI - Una domanda, giustamente nella descrizione tu
hai detto: era uno studio, bene, essendo uno studio ed avendo come protagonista
il pubblico e voi non visibili, quanto il fatto che il pubblico fosse
l’oggetto del lavoro è tornato nell’opera finale?
MARCO
MAZZONI - Intanto era uno studio che doveva servire a noi a capire
quale sarebbe stata la direzione dell’opera finale e quindi
questo era un punto abbastanza fondamentale. Avevamo finito un lavoro
come <OTTO> e sentivamo di aver già messo dei punti rispetto
a quella che poteva essere la nostra riflessione sulla rappresentazione;
in qualche modo però ci eravamo dati questa finalità di
produrre un altro lavoro che avrebbe dovuto lasciare il segno di questa
nostra ricerca - allora nel momento in cui ci siamo interrogati rispetto
a quel lavoro siamo partiti da delle riflessioni che ci togliessero
totalmente di scena e lasciassero così la scena completamente
in balia al pubblico, però è anche vero che non volevamo
semplicemente dire: eccovi! Ma volevamo trovare una maniera per portarli
ad essere in scena loro malgrado.
Quindi in realtà abbiamo messo in moto questo stratagemma che
ci permetteva di portare direttamente il pubblico che veniva a vedere
uno spettacolo dentro di esso. Tutta la cosa diventava chiara nel momento
che al pubblico che stava consumando al buffet veniva tolto in cuffia,
lentamente, l’audio con le nostre voci e sostituito con l’audio
registrato sul momento in diretta di loro stessi che consumavano il
buffet offerto da noi. Loro si trovavano ad ascoltare loro stessi dentro
quella scena. Tutto questo si trasformava in messa in scena, li portava
all’interno di questo spettacolo. la cosa finiva in maniera semplice.
Una volta finito di mangiare e bere veniva reinserito in cuffia l’audio
del nostro parlato, veniva aperta la porta e loro si ritrovavano fuori
di nuovo.
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